Che cosa fanno gli psicologi nella vetrina di Facebook?
Osservando qua e là si vedono comportamenti diversi.
C’è chi si mette in mostra con le foto dei propri figli, della propria ultima vacanza, del bel piatto appena cucinato e di altre attività personali, e chi invece rigorosamente si attiene a citazioni di pensieri dei grandi maestri (più raramente dei propri) e a informazioni su iniziative proprie e altrui.
Aldilà della forma proviamo a fare qualche riflessione sulla sostanza.
Per maggiore sinteticità definirò genericamente “psicologo” anche lo psicoterapeuta e “cliente” anche il cosiddetto paziente (naturalmente intendendo entrambi i sessi).
Consideriamo dunque il caso in cui un cliente, abbia “l’amicizia” su Facebook da parte del proprio psicologo, o la possibilità di accesso alle sue pubblicazioni, direttamente o tramite qualche conoscente.
Mettiamoci nei suoi panni.
Che cosa accadrebbe se vedessimo delle foto in cui il nostro psicologo fosse con i figli o con il coniuge, in un atteggiamento che ci creasse un qualche disagio emozionale?
In una relazione in cui il transfert ha un ruolo così centrale, un vissuto del genere potrebbe irrompere in modi diversi, più o meno esplicitati, nella dinamica della terapia e diventare preminente, in forma conclamata o latente.
Ricordo il caso di quando nacque mio figlio e avevo in cura una psicoterapeuta di una quarantina d’anni.
Il lavoro procedeva spedito e la relazione tra noi sembrava salda e in una fase di affettività positiva da parte di lei, con caratteristiche simili a quelle di un “innamoramento” delicatamente seduttivo, come di una giovane figlia verso il padre.
Si trattava di una donna omosessuale.
 
Le dissi che era nato mio figlio e credo proprio che fosse visibile la mia grande gioia.
Alla seduta seguente arrivò tutta vestita di nero, con aria funerea, e a tempo concluso mi comunicò che interrompeva la terapia.
Non volle dirmi nulla né sentire nulla.
La ferita lontana e profonda della gelosia infantile quante volte potrà essere toccata dalle pubblicazioni, sulla vetrina di Facebook, delle nostre immagini d’intimità familiare?
Un abbraccio con mia moglie in riva al mare quale tempesta potrebbe provocare, quando il tenero e fragile amore si stesse muovendo, dalla deriva della solitudine infantile, verso il continente solidale del transfert positivo?
Facciamo un lavoro delicato, in cui anche un battere d’ali ha un peso: il virtuale rappresentato sui social network sembra volare via senza lasciare traccia nel mare multimediale, ma può incidere segni a volte indelebili nella rete delle “ferite dell’anima”.
Ricordo un’altra mia cliente, medico assai valente, tra i trenta e i quarant’anni, che aveva raccontato con entusiasmo di un campeggio che amava tanto, in una spiaggia in Corsica.
La Corsica era proprio la meta delle mie vacanze e dovevo passare per quel luogo...
”Oh che bello...potrei fermarmi lì un po’...”le dissi con tono interlocutorio.
“Ma certo! Vedrai che ti piacerà...” fu la sua risposta.
Dopo quella seduta la nostra interazione cominciò ad arenarsi...su quella spiaggia.
L’intimità di quel luogo era stata violata inconsapevolmente, da me e forse anche da lei.
Può un luogo di vacanza essere parte della nostra più tenera intimità?
Certo che può.
Immaginiamo allora quali rifrazioni di sentimenti si possano avere attraverso i social network, ove svolazzano qua e là immagini di luoghi emozionalmente speciali per molti…
Si tratta di materiale delicato più di quanto crediamo…
Personalmente ho amato Ginostra, un paese dell’isola di Stromboli, come fosse una madre.
Negli anni ottanta era per me un rifugio reale e al tempo stesso virtuale.
Appena potevo partivo per la mia isola per ristorarmi, meditare e scrivere* e nel tunnel dell’inverno di Milano sapere di poter trovare prima o poi rifugio a Ginostra era per me un’ancora esistenziale.
Cosa avrei provato se avessi visto commenti e foto pubblicati dalla mia psicologa, in cui si fosse alluso al problema del discutibile sistema di raccolta dei rifiuti in vigore allora a Ginostra?
Una tempesta emozionale…
Le immagini a volte ancor più delle parole possono avere un impatto emozionale imprevedibile.
Ricordo che, circa un decennio fa, quando creai un sito per far conoscere i miei libri appena usciti, corredandolo di una serie di foto, m’imbattei in un’esperienza che mi stupì.
Stavo lavorando con un cliente da qualche anno ed egli aveva appena deciso di approfondire il suo percorso partecipando a un gruppo che tenevo settimanalmente.
Non se ne fece nulla.
Aveva visto, insieme a sua moglie, le foto del mio sito e disse che era rimasto colpito particolarmente da una in cui ero molto più giovane, con i capelli lunghi e con una tuta rossa. ”Non ti ho riconosciuto...sembravi un guru”.
Cercai di spiegargli che, come diceva la didascalia della foto, si trattava di un’immagine che mi ritraeva a Ginostra negli anni in cui avevo scritto “L’isola felice”, che era quindi nel mio intento una sorta di documentazione...
La realtà contava niente di fronte all’impressione che lui aveva avuto.
Sospese la terapia, che riprese solo dopo qualche anno con una richiesta di colloqui di sostegno.
Si era vergognato di me di fronte alla moglie, in un modo per lui intollerabile: aveva dovuto fare un gesto di autonomia dal “guru”...
Avrebbe potuto essere un incidente utile se fosse stato possibile elaborarlo.
Ai tempi nostri di Facebook, quanti incidenti analoghi emergono e magari riescono a essere elaborati e quanti invece covano sotto la cenere e finiscono per implodere subdolamente?
La potenza delle immagini non finisce mai di stupire in un mondo che ha eletto l’immagine a Dea della comunicazione.
Una potenza che è insita in quelle immagini che si andranno ad aggiungere al materiale che non di rado s’incontra nei profili Facebook degli psicologi: opinioni personali su cultura, politica, religione, ecologia, alimentazione, animali, sport e via dicendo...
Ogni elemento visibile su Facebook occuperà uno spazio più o meno conscio della relazione e quando la cosa sarà consapevole si tratterà probabilmente del “male minore”: ci sarà la possibilità di elaborare positivamente il vissuto e le proiezioni.
“I gusti del mio psicologo su cibo, musica cinema, così diversi dai miei, mi sorprendono e mi disturbano... gliene dovrò o potrò parlare?”
Più difficile se tutto rimarrà sott’acqua: ”il troppo” potrà invadere il campo emozionale del cliente e covare sotto le ceneri delle emozioni inconsce, come una bomba a orologeria.
In ogni caso credo sia opportuno facilitare l’emersione di questo materiale emozionale, indotto dalla vetrina di Facebook, e non lasciarlo sopire nel fondale come un’alga virtuale e inerte.
Penso che ci stiamo muovendo verso la fine di una fase di transizione: si va sempre di più nella direzione della visibilità e della “trasparenza” dello psicologo, non solo attraverso i canali dei social network, ma in generale attraverso il grande mare di Internet, quel cyberspazio nel quale siamo ormai immersi, talvolta anche senza saperlo.
Il transfert cambierà, anzi sta già cambiando.
La proiezione del transfert ci sarà ugualmente, ma sarà differente.
La maggiore visibilità toglierà spazio a un certo tipo di proiezione aggiungendo singoli elementi di realtà, sui quali comunque sarà sempre possibile proiettare: il non detto si arricchirà di elementi puntuali tratti dalla “realtà” del terapeuta.
Potrebbe essere che il transfert sarà arricchito da questi elementi più puntuali provenienti dalla “realtà” e alleggerito da proiezioni affettive provenienti dal bagaglio infantile: la relazione potrebbe muoversi nella direzione di una maggiore "autenticità".
Certo sarà tutto da vedere e da capire.
Le implicazioni sono notevoli!
In ogni caso comunque credo che ci dovremo far carico anche di questo materiale, facilitarne l’emersione, l’esplicitazione e l’elaborazione.
Ognuno di noi userà il suo personale protocollo di comportamento, sul versante della privacy, ed è comprensibile che nessuno si sia azzardato, a quanto mi risulta, a dettare regole di comportamento in una materia così inedita e in così rapida evoluzione.
A mio avviso conviene ragionare e confrontarsi su questo processo, piuttosto che arroccarsi su posizioni isolazioniste da linea del Piave o da ultima spiaggia, chiudendo gli occhi a quello che è già sotto i nostri occhi.
Che ognuno faccia quello che ritiene più congruo, ma che si aprano occhi e discussioni su questa questione.
Credo che questo non sia il tempo di chiudere, ma di delimitare, analizzare, elaborare.
E condividere.
E proprio in quest'ottica vanno intese queste mie riflessioni: stimolare una condivisione di esperienze e punti di vista diversi, che auspico di poter ospitare su questo blog.
* “L’ISOLA FELICE – Viaggio alla ricerca dell’amore perduto”, 2005 Silvia Editrice.
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